Montescaglioso: “Minguccio” Nico compie 100 anni! Tantissimi auguri

Lo Spi Cgil di Matera ha festeggiato con “Minguccio” Nico i suoi 100 anni di vita.

Un compagno che coerentemente, per tutto il lungo corso della sua lunga vita, ha militato nel sindacato e nel partito lottando per la libertà, la democrazia e per i diritti della povera gente, dei lavoratori, dei pensionati.

Un esempio per le giovani generazioni affinchè l’impegno profuso non si disperda.

Oltre ai dirigenti del Sindacato dei Pensionati Cgil di Matera, Eustachio Nicoletti, Nunzia Armento, Angelo Capobianco, il responsabile della Camera del Lavoro di Montescaglioso Antonio Lorusso, erano presenti anche la signora Filomena Balsamo, figlia di Anna Avena e Mario Di Chio, figlio di Marianna Menzano.

Tutti insieme per riconoscere l’impegno nelle lotte contadine, all’operaio edile, diventato successivamente responsabile degli edili della Camera del lavoro di Montescaglioso, all’esponente del Partito Comunista e segretario della sezione, all’Assessore nelle giunte di sinistra di Montescaglioso nei decenni compresi tra il 1960 e 1980.

Per far conoscere a tutti il valore morale e politico del compagno Domenico Nico alleghiamo l’intervista realizzata da Peppe Lomonaco il 24 e 25 settembre 2015.

“Mio padre era bracciante originario di Gioia del Colle. Si sposò a Monte. Sono nato il 1° aprile del 1924.

Da piccoli mangiavamo ceci, fagioli e fave quando andava bene.

Non avevamo una casa in proprietà.

Cambiavamo spesso di casa.

Erano anni che si spaccava.

Mio padre se ne andò a Torino dove c’era un suo cognato.

Trovò lavoro e là rimase.

Rimanemmo soli, mezzi digiuni.

Si spaccava pure a Torino.

Rientrò dopo due anni.

Abitavamo in una casa che crollò appena andammo via.

Meno male che ce ne andammo da quella casa.

L’8 settembre 1943 mi trovai a Trani.

Ricevetti una lettera da mamma in cui mi spiegava com’era avvenuta la morte di don Franceschino Locantore, il segretario del fascio.

Era scappato da casa, s’era rifugiato in casa di un compare in via Pitagora.

Lo tirarono fuori da sotto il letto.

Poi svuotarono la sua casa di ogni bendidio: forme di formaggio che ruzzolavano per la piazza, sacchi di sale…

I tedeschi occupavano Barletta. Per i bombardamenti, da Trani arrivai a Bari. A Bari mi presero quelli della ronda militare.

Mi mandarono a Cesano di Roma.

Con me vennero pure Peppe Conte e il veterinario Venezia.

A Cesano stavamo solo con le mutande e a piedi nudi sotto la tenda.

Non avevamo indumenti e neanche le scarpe.

In una tenda stavamo in quattro o cinque.

Mi hanno dato i vestiti nuovi e le scarpe quando sono partito per l’Alta Italia.

Stetti a Trento con gli inglesi. Facevo l’autista e il meccanico dei mezzi militari.

Fu a Trento che ho preso la prima tessera del Partito comunista italiano.

Ho finito il servizio militare il 18 agosto 1946.

Quando ho chiesto la pensione per tutti quegli anni non ho ottenuto niente.

Sono rientrato a Monte. Lavoravo da operaio.

Iniziai a frequentare la sezione del Partito che si trovava proprio di fronte all’Orologio.
Un giorno davanti alla sezione si tratteneva Rocco Pompeo, un mio cugino.

Passò una macchina di fascisti. Uno di loro era Pepp Radd.

Al povero Roccuccio gli scaricarono tante di quelle mazzate da farlo a cicapino.

Il segretario della Federazione del Pci di allora era il compagno Matteo Massenzio. Quando ha saputo di quella vile aggressione è venuto a Monte.

Ha rintracciato Pepp Radd in un bar.

Il segretario dalle spalle larghe e robuste è entrato nel bar, ha individuato il picchiatore e di pugni gliene ha dati di santa ragione.

Quando a Matera venne Togliatti nel 1948 andammo con due o tre camion. Togliatti disse che i Sassi di Matera erano una vergogna nazionale.

Al ritorno rischiammo di morire.

Il camion si fermò in salita e prese ad andare indietro, era senza freni.

Riuscimmo a buttarci a terra.

Qualcuno si ferì, ma senza gravi conseguenze.

Nel 1948 partiamo con le occupazioni delle terre.

Tra i primi a muoversi ci furono Candido, Rocco Marchitelli, Mariannina Menzano, Anna Avena…

Di tutte le occupazioni di allora non me ne sono persa una. Dalla “Difesa San Biagio” a “Tarantini,” dalla “Murgia” ai “Tre Confini”.

Una volta di ritorno da una occupazione di terreni del “Pantano Avinella” scoppiò un temporale a contrada “Galli”.

Abbiamo obbligato S., noto militante democristiano, a portare la bandiera del Partito comunista.

Quando siamo arrivati a Monte, dopo un giro per corso della Repubblica e fino a piazza del Popolo, si è tenuto il comizio davanti alla chiesa di San Rocco.

Un giorno di ritorno dalla occupazione dei terreni della “Murgia”, quando siamo arrivati al pilaccio “Grillo” con le altre donne ci aspettava la senatrice Adele Bei che si è unita a noi e in piazza ha tenuto un comizio.

Quando siamo andati ai “Tre Confini”, con il cavallo mi sono messo ad arare mentre mio fratello tagliava le macchie di lentisco.

A un certo punto è arrivata la polizia.

Tre quattro camion di polizia.

Appena dopo abbiamo visto scendere dal paese tanta gente, uomini e donne, verso di noi.

Tra questa gente c’era mia madre, Dolorata Marciedd e Rosaria Racamato. Il maresciallo ci disse che noi e i cavalli saremmo tornati a Monte.

Intanto scriveva i nostri nomi.

Mamma, Anna Clemente, Dolorata Marciedd si avvicinarono a quello che scriveva i nomi e gridando gli strapparono di mano il foglio con i nomi.

I poliziotti se ne andarono quando giunsero quelli che scendevano dal paese.

Anche quella sera quando siamo rientrati abbiamo fatto la sfilata per il corso.

Dopo qualche giorno avvenne la retata in piena notte.

Io e altri non dormivamo a casa.

Quella notte fu una vicina, Felicia Frunton, che ci venne a dire di scappare ché era arrivata la polizia.

Siamo fuggiti.

Abbiamo visto che quelli sparavano bombe lacrimogene in piazza Roma.

Me ne andai dalla Strada del Carro. Raggiunsi l’Orologio.

Le strade erano strapiene di gente.

Arrivarono quelli della motocicletta, volevano passare tra tutta quella gente.

Dalla moto caddero a terra, si rialzarono, spararono e ammazzarono Novello e ferirono Oliva.

Fu proprio dove ora c’è la lapide.

Dall’altro lato della strada allora c’era il forno di Filippo Giove.

La piazza rimase piena di gente fino alle undici del mattino.

Il sindaco di allora era Liborio Abate che cercò di calmare la situazione.

Forse fu nel 1952 che si stava realizzando la strada per Metaponto, la 175.

A casa si spaccava, non avevamo niente.

Io, mia madre, mia sorella, mio fratello…

Fui ingaggiato dalla ditta che costruiva la strada, impresa Di Summo di Bernalda.

Dopo un certo periodo, stavamo lavorando proprio sotto la zona di “San Vito”, dovevano licenziare i figli di famiglia per far lavorare i capifamiglia disoccupati.

Fui tra i licenziati.

Il mattino successivo quando in piazza è arrivato il camion a caricare gli operai, tra loro sono salito anch’io.

Immediatamente sono arrivati i Carabinieri che mi hanno preso stretto tra loro come fossi un delinquente e mi hanno portato in caserma.

Quando il maresciallo ha chiuso il portone, mi ha tirato un calcio sulla gamba.

Mi faceva male, ho gridato per il dolore.

Mi ha fatto togliere la cinghia dei pantaloni e i lacci dalle scarpe.

Mi ha rinchiuso in uno stanzino col tavolaccio, senza luce.

Intanto la Camera del Lavoro, che era proprio sotto la caserma, si riempiva di gente che aveva saputo del mio arresto.

In quei giorni a Monte c’era una compagna del Partito arrivata dalla Calabria, Giulia Nocchi.

Una bella giovane preparata e determinata.

Lei e il segretario della Camera del Lavoro, Rocco Marchitelli, sono venuti in caserma a chiedere il mio rilascio.

La giovane Giulia Nocchi con le sue argomentazioni ha messo a tacere il maresciallo ottenendo il mio rilascio immediato.

Il maresciallo aveva predisposto tutto per mandarmi nelle carceri di Salerno.

Forse il maresciallo si era preoccupato di tutta la gente che s’era radunata nella Camera del Lavoro per convincersi a rilasciarmi.

Mi restituì la cinghia e i lacci e mi disse sottovoce nell’orecchio: “Non andare alla Camera del Lavoro, vattene a casa.” Raggiunsi la Camera del Lavoro piena di gente.

Dopo un po’ venne il maresciallo a giustificarsi dell’arresto.

Di Summo non mi riassunse.

Ho passato tanti guai.

Fui assunto dalla ditta che realizzava la strada “Giannina” e le gallerie del Consorzio di Bonifica.

Nelle gallerie lavoravamo anche di notte.

Facevamo tre turni.

Una notte, alla fine del secondo turno, mentre salivamo verso Monte con la moto del mio amico Vituccio, si mise a nevicare.

Camminai a piedi dai “Vignali” fino a casa.

Dopo qualche tempo fummo costretti allo sciopero perché la ditta voleva obbligarci a dormire nella “Dogana” per evitare di pagarci il trasporto dal paese al cantiere.

Fu fatta una commissione di trattativa.

Recuperammo tutti un bel po’ di soldi.

Per il mio impegno sindacale, un giorno il capocantiere mi portò con la sua moto poco lontano dal cantiere.

Mi ha fatto sedere comodo a terra e mi ha detto: “Guarda, Domenico, anch’io sono comunista, ma a te chi te lo fa fare a impegnarti per gli altri?

Vedi che anche i tuoi compagni sono contrari.

Ti facciamo caporale…” Gli dissi di no, che non se ne parlava proprio.

In cantiere lavoravamo con attenzione.

Raccoglievamo la carta dei sacchi del cemento e, a mezzo degli autisti che andavano a Matera, la vendevamo e compravamo un po’ di vino per tutti quanti.

Non durò molto.

Dopo una sospensione dei lavori ripresi a lavorare con un’altra ditta.

Eravamo più di cento operai.

Fui subito contattato dal compagno Lufrano della Cgil di Matera per costituire la Commissione Interna.

Immediatamente la ditta licenziò i designati.

Io e qualche altro insistemmo con la ditta per essere riassunti.

Ci riuscimmo quando a un funzionario del Consorzio di Bonifica portammo in regalo un panaro pieno di uova.

Continuai a far parte della Commissione Interna.

Nei lavori della galleria avvennero dei crolli che per fortuna non provocarono morti.

Fu proprio in quel periodo, quando si costruiva la strada “Giannina” che ci fu la tragedia del “Ponte di ferro”.

Un camion carico di gente che tornava dal lavoro precipitò dal ponte.

Morirono cinque persone e altre si ferirono.

Andammo a vedere.

Una tragedia.

Prima di noi era arrivata Mariannina Menzano che era l’assessore del Comune.

Ci fu un periodo che si manifestava contro la bomba atomica.

Si raccoglievano le firme per una petizione.

Andammo pure al convento dei monaci.

Ci cacciarono in malo modo.

Ero componente della Commissione di collocamento al lavoro.

Ogni volta che c’era da avviare al lavoro una persona che simpatizzava per il Pci ci scontravamo con il componente democristiano e con il funzionario dell’Ufficio.

Una volta persi la pazienza, afferrai la sedia per romperla sulla testa di quei due farabutti.

All’estero per lavoro non ci sono mai andato.

Ero legato al Partito.

Ero legato così tanto che, anche se a casa si spaccava, il mio impegno per il Partito non doveva mancare.

Nel 1963 io e Antonio Lomonaco andammo a Bari a contattare il grande fisarmonicista Pino Di Modugno per la Festa dell’Unità.

Venne con il suo complesso e con Colino e Marietta, due cabarettisti baresi, che ogni Domenica erano alla radio della Puglia.

Una grande Festa dell’Unità come non se ne erano mai viste.

La ripetemmo l’anno dopo.

Una grande festa.

Per il mio impegno politico sono stato assessore municipale.

In quel periodo avevo un vespino con il quale mi muovevo a mie spese per controllare i lavori pubblici che si realizzavano a Monte.

Molte volte l’usciere comunale mi raggiungeva sul cantiere dove lavoravo per avvertirmi di passare dal Municipio per le firme necessarie sugli atti.

Ci andavo nell’ora di pausa.

E molte volte non riuscivo a passare da casa per un boccone.

Tornavo a lavorare senza aver mangiato.

Tra gli assessori ero quello più anziano.

E una volta dovetti presiedere una seduta del Consiglio comunale.

La nostra amministrazione comunale era in difficoltà.

C’era il rischio di mollare tutto.

I nostri avversari erano felici delle nostre difficoltà.

I fascisti erano proprio allegri per la nostra fine imminente.

Ho dichiarato aperta la seduta.

Ci sono stati gli interventi dei nostri.

Appena dopo chiede la parola il capo dei fascisti.

Immediatamente dichiaro sospesa la seduta.

Rimasero con un palmo di naso!

Nel 1973 superammo come sezione l’obiettivo prefissato per il tesseramento 1974.

Tessere fatte casa per casa, di sera dopo il lavoro.

Campagna del tesseramento chiusa entro il mese di Dicembre.

Vincemmo il premio messo in palio dalla Federazione di Matera che era un viaggio a Mosca.

Il segretario della sezione ero io. Toccava a me andare a Mosca. Ci rinunciai. Mandammo il compagno Arturo Oliva che era più giovane. Quando tornò da Mosca ci raccontò d’essere stato in una piazza grande, molto grande. Aggiunse che a Mosca nel mese di novembre c’era la neve.

Lui da Mosca non ci portò neanche una sigaretta.

Niente, niente.

È un peccato che il Partito non c’è più.

Ogni anno mi tesseravo.

Tesseravo pure mia moglie.

Riuscii a convincere anche mia suocera a farsi la tessera”.

Ecco le foto dei festeggiamenti.